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Tè verde

Ultimo Aggiornamento: 16/06/2010 23:24
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Città: FIRENZE
Età: 41
Sesso: Femminile
16/06/2010 23:24

Quando l’autobus mi scaraventò su O’Connel Street avevo ancora l’odore delle strade di Belfast nelle narici. Il viaggio non era stato lungo, forse anche troppo breve.

“Salve buon uomo” mi fece un tizio senza denti accostandosi con circospezione.

Lo guardai in silenzio. Un vento gelido mi costrinse a stringere il cappotto intorno al collo.

“Sapresti dirmi dove si trova Talbot Street?” continuò. Era vestito di stracci, gli scarponcini marroni aperti sul davanti. Sulle guance portava i segni dell’acne giovanile ma erano passati tanti anni da allora. Dall’accento avrei giurato che fosse tedesco.

Talbot Street si trovava esattamente alle nostre spalle. Gliela indicai, farfugliando qualcosa con la voce impastata di sonno.

“Grazie buon uomo” “Di nulla”. Lo osservai mentre si allontanava con una camminata sbilenca, poi si perse tra la gente. Nel frattempo aveva preso a piovere e tutto cominciò a bagnarsi. Le signore facevano attenzione a dove mettevano i piedi, i ragazzi correvano. Attraversai velocemente il ponte e giunsi davanti al portone.

“Sono io”

Il citofono rimandò un suono sordo, poi il cigolio della serratura malandata si azionò. Tutto era rimasto uguale. Le scale bianche, la vernice celeste che segnava i bordi delle finestre. L’odore di un tempo che non c’era più.

“Figliolo che gioia vederti qui!” La vecchia Sara mi strinse a lei come non aveva mai fatto. I suoi erano sempre stati abbracci possenti, ma quella volta le sue braccia parevano più grosse del solito. Dall’ultima volta che l’avevo vista era passato un anno.

“Ti trovo bene nonna” le sussurrai perdendomi nelle sue rughe profonde. Mi passò la mano callosa sulla fronte, poi mi diede un bacio e mi chiese di entrare. In casa c’era odore di pollo. Sara era brava a cucinare il pollo. Lo faceva consumare in un tegame con un po’ di olio e qualche foglia di alloro, e poi alla fine aggiungeva un cucchiaio abbondante di curry. Sapeva che a me piaceva da matti il pollo.

“Siediti” esclamò mentre sistemava un centrino sul tavolo. Io non lo feci. Posai la borsa sul pavimento e allungai gli occhi verso la camera da letto. C’era la foto del nonno, e una candela rossa sotto. Accesa. Era un’usanza italiana. La nonna l’aveva imparata dai parenti del nonno in Calabria. Il resto era tutto uguale. La credenza marrone con i suoi vetri lucidi, l’orologio a pendolo che rintoccava, oramai stufo di farlo, il divano di pelle con i cuscini logori.

Mi accostai alla finestra e spostai un po’ le tendine. Temple Bar era sgombra e i suoi ciottoli bagnati riflettevano le luci delle insegne colorate. In fondo si scorgevano le auto che passavano su Westmoreland Street. Poi sentii le mani di Sara sulle spalle e la sua testa che lentamente si poggiava dietro di me. Rimasi fermo e chiusi gli occhi.

“Avrei voglia di un tè caldo, nonna”

Lei si staccò e sorridendo domandò se lo preferivo nero o verde.

Le risposi che lo avrei preso verde.

“Sei dimagrito sai?”

“Si lo so”

Mi scrutava e sorrideva, e io non potevo che stare al gioco. D’altronde erano mesi che non mi vedeva, avrei dovuto concederglielo. Ma lei sapeva bene che odiavo essere scrutato.

Poi si spostò in cucina, ricamando i suoi passi piccoli e leggeri sulla moquette che sapeva di stantio. Rimasi un po’ alla finestra con lo sguardo smarrito nelle pietre di Tempe Bar. Quando aprii le ante qualche goccia mi raggiunse il volto e io rimasi con il naso fuori a sentire il rumore del Liffey che se ne andava verso il mare d’Irlanda.

“Carlo vieni qua” gridò dalla cucina la vecchia Sara. Così lasciai la finestra aperta e la raggiunsi. Il bollitore era già sul fuoco e lei stava asciugando le tazze con un tovagliolo ricamato.

“Allora dimmi, com’è la situazione nel Bogside?”

Speravo non mi facesse quella domanda, ma sapevo che mi sarebbe toccato risponderle. A mio modo naturalmente.

“Non è delle migliori nonna”

“Beh questo lo so figliolo”

“Ecco” aggiunsi, per poi rendermi conto che il tono di voce che usavo, alle volte, doveva risultare alquanto acido.

“Pensi che finirà presto?” continuò.

“Non ne ho idea nonna, davvero”

Ogni volta che tornavo per la licenza era così, la vecchia Sara che faceva domande e io che me ne restavo con la bocca cucita. La osservai da dietro, con quel culo enorme coperto dalla veste di fattura italiana. Qualche anno addietro, quando il nonno era ancora in vita, lei non usava indossare vestiti italiani. Non le piacevano, tutto qua. Ma da quando il nonno se n’era andato aveva preso a tirar fuori dagli armadi tutte quelle vesti larghe che il vecchio le aveva comprato in Italia e ora le portava in giro con sfavillante disinvoltura. Quella sera la veste le cadeva sotto le ginocchia in risvolti eleganti, ornati di pizzo nero. Intorno al collo le girava una collana dorata, sottile come i suoi capelli setosi.

Poi non so perché ma mi stancai. Mi stancai proprio mentre il fumo del bollitore aveva cominciato a venire fuori. Mi stancai mentre la vecchia Sara posizionava con precisione inglese le tazze sul vassoio d’argento. Spolverato e lustrato appositamente per il nipote tornato dal nord impazzito. Mi stancai di quelle risposte restie, di quelle pause forzate.

“L’altro giorno ho avuto paura” Mi venne fuori questa frase, come se qualcuno da dentro la stesse spingendo fuori a piene mani. Ero giusto dietro di lei, che non fece una piega e non domandò oltre. Aspettava. Probabilmente aspettava da tempo e non voleva rovinare quel momento. La compostezza di una vecchia inglese che veniva a patti con la testarda introversione di un mezzo calabrese. La finestra nel salotto mandò un cigolio, spinta dal vento che sferzava Temple Bar.

“Quando la mattina mi sveglio e guardo Belfast dalla caserma sembra tutto così irreale” continuai “le case sono in fila, con i tetti allineati e perfetti, i giardini curati. E quel cielo, e quelle nuvole che sembrano dipinte. Come diavolo può saltarti in mente che laggiù c’è odore di morte? Poi mi tocca mettere quell’elmetto e quegli anfibi, stringere la cintura intorno alla vita e saltare sul cingolato assieme ad altri due disgraziati come me. O meglio uno come me, perché in genere trovi sempre l’esaltato di turno che impreca contro i cattolici come fossero topi di fogna”

Sara spense il fuoco perché l’acqua bolliva oramai da qualche minuto. Non si era voltata. Sapevo che mi stava ascoltando come non aveva mai fatto in vita sua. Così mi strofinai le nocche della mano destra contro il naso, come ero solito fare. Non che nessuno me lo avesse mai fatto notare. Certe cose non si fanno notare, si registrano e basta.

“Capita che un giorno chiama il colonnello e ti urla “Oggi Derry, Bogside” e allora ti ritrovi nel retro di una camionetta che corre sulla strada e non sai a che ora tornerai in caserma, e quando scendi in strada ti immagineresti di trovare il nemico, quello vero, cupo e scuro, con la faccia incazzata pronto a farti fuori come un cane, e invece no, cara nonna, invece no, ti trovi nel mezzo di questi casermoni alti e vedi donne che girano con buste della spesa e camminano veloci, come se fosse l’ultima cosa che stanno facendo, e bambini che cercano di giocare ma nessuno ha insegnato loro come si fa, e i loro occhi sono specchi, puoi leggerci la tua paura, il tuo smarrimento. Tutta questa storia non ha alcun senso”

Mi resi improvvisamente conto che di quel soldato della regina, così brillante e presuntuoso, così tronfio di sé stesso, di quello stesso soldato che qualche anno prima era partito alla volta dell’Irlanda del Nord con un carico di veementi promesse imperialiste, non v’era più traccia. Si era perso, chissà dove diavolo era finito.

“Siamo nel 1980 ormai, non finirà più” aggiunsi.

“Dici figliolo?” Sara si era voltata, con le braccia intrecciate sul petto e gli occhi sorridenti. L’acqua bollente era ormai nelle tazze, dentro il filtro svolgeva diligentemente il suo compito.

“Si nonna, non finirà più”

La vecchia si voltò di nuovo e si mise a giocare con un filtro, muovendolo nell’acqua della tazza in circolo. Poi prese fiato e cominciò a parlare anche lei.

“Tuo nonno, che era un buon diavolo, non andava d’accordo con un tizio, al suo paese. Era un bel ragazzo, e piaceva alle donne. Io ancora non lo conoscevo, ma certe cose le ho sapute dopo”

Non capivo dove voleva andare a parare. Ma stetti là, seduto sulla sedia, con le gambe accavallate, e ascoltavo. Parlava con voce bassa, quasi sussurrando. Mi trasmetteva un’intensa sensazione di calma.

“Un giorno” proseguì “ quest’uomo, che si chiamava Pietro, si presentò dal padre di tuo nonno dicendo che gli avevano rubato una pecora”

“Una pecora?”

“Esatto. E sosteneva che il colpevole era stato tuo nonno. Il padre di tuo nonno gli rispose che se fosse stato davvero lui, lo avrebbe punito in maniera esemplare. Allora andarono da tuo nonno, che era nel fienile a strigliare i cavalli, e gli domandarono se fosse davvero stato lui. E tuo nonno, che non era un tipo calmo, si scagliò addosso a quel tizio e presero ad azzuffarsi. Il padre di tuo nonno rimase a guardarli, sapeva bene il motivo che li portava ad odiarsi”

“Cioè?”

“Una ragazza”

Un sorriso mi segnò il volto. Un sorriso timido, impaurito, ma pur sempre un sorriso. Pensavo al nonno che faceva a pugni per una ragazza.

“Tuo nonno e questo Pietro se ne erano innamorati, ma lei non pareva molto interessata. Ma nonostante questo, loro continuavano ad odiarsi, come se quella donna fosse loro. Il tizio aveva accusato tuo nonno solo per questo motivo. Quando finirono di azzuffarsi, stanchi e sporchi, il padre di tuo nonno andò al pozzo, prese un secchio d’acqua e lo rovesciò in testa prima al figlio e poi al tizio. E poi ordinò loro di sistemare il fienile entro il tramonto”

“E loro”

“E loro continuarono ad azzuffarsi fino a sera”

“Perché mi racconti questa storia nonna?”

Il filtro aveva terminato il suo compito. Sara prese la tazza, ci mise un cucchiaio di zucchero e me la porse. La portai alle labbra ma il tè scottava.

“Perché fin quando pensiamo che qualcosa ci appartiene, è difficile cavare un ragno dal buco” rispose girando il cucchiaino con estrema lentezza.

Un altro sorriso mi si stampò sul volto, questa volta più marcato di quello precedente. Dopo il tè dissi alla vecchia Sara che andavo a fare due passi.

Aveva smesso di piovere ma l’aria era fredda. Io avevo il cappotto, e la sciarpa stretta intorno al collo. Presi a camminare lungo Temple Bar, alla fine svoltai a destra su Westmoreland street e mi trovai davanti al Trinity College. Ero un soldato inglese. Nipote di un uomo calabrese, che non c’era più da un pezzo, e di una donna inglese, che viveva nel cuore di Dublino. I miei genitori erano nati e cresciuti a Londra, e la se ne stavano. Portavo un nome italiano. Pensai a tutto ciò, a cosa diamine volesse significare. Un’ambulanza sfrecciò davanti al vecchio Trinity e io ripresi a camminare verso Grafton Street. C’era poca gente in giro. Nessuno sapeva che ero un soldato inglese, e la cosa mi rassicurava. Mentre percorrevo il leggero pendio che sale verso il St. Stephen Green, la mente tornò a quello che la vecchia Sara mi aveva detto prima di uscire. Dopo che le avevo domandato come era finita tra il nonno e quel tizio.

“Si sono stancati di azzuffarsi” aveva esclamato.
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